Inchiesta sui rapporti sotterranei tra Italia e Cina nel mondo dell'accademia, delle associazioni e delle istituzioni.
Aprire le Scatole Cinesi
Primavera 2021, tra le aule e nel cortile dell'Università di Groningen nei Paesi Bassi si avverte un certo fermento. Circola una petizione, alcuni studenti stanno protestando per chiedere la chiusura dell'Istituto Confucio. Non accettano che all'Istituto siano utilizzati solo materiali di studio approvati dal Partito comunista cinese e lo considerano una minaccia per la libertà accademica di studenti e professori.
Noi, Sofia Turati e Margherita Capacci, studiamo giornalismo nella piccola città olandese e guardiamo con interesse alla protesta. Perché tanto clamore per un istituto di lingua? Informandoci, scopriamo che Groningen non è un caso isolato e la preoccupazione per la presenza di questa istituzione dentro l'università si percepisce anche altrove in Europa. Eppure in Italia non abbiamo mai sentito di alcun dibattito a riguardo.
Sembra che la maggior parte del nostro paese si sia accorta della dimensione politica della relazione con la Cina soltanto nel 2019, quando la firma del Memorandum d'intesa sulla Via della seta è finita prepotentemente tra le prime pagine dei giornali italiani e stranieri. Però da allora in Italia l'interesse verso Pechino è rimasto sporadico e il dibattito pubblico sul tema rimane abbastanza piatto e decisamente polarizzato.
Vogliamo capirne di più. Contattiamo una giovane ricercatrice esperta di relazioni Italia-Cina, Ludovica Meacci. Partiamo insieme dall'idea di indagare i legami del Partito comunista cinese con l'accademia italiana. Non ci aspettavamo che nei quattro mesi di indagine avremmo scoperchiato un vaso di Pandora. O meglio, che avremmo aperto le 'scatole cinesi', trovandoci ambasciatori e imprenditori indagati per corruzione, istituti 'di cultura' che paiono entità più politiche che culturali, chi pensa che la Cina in fondo sia una democrazia e chi chiude un occhio in nome degli affari. Abbiamo anche incontrato tante persone appassionate, che testimoniano con la loro attività quotidiana di giornalisti, docenti o ricercatori che è possibile raccontare la complessità cinese al di là di stereotipi e dicotomie semplicistiche.
In quest'inchiesta mettiamo in luce i legami in ambito istituzionale, accademico e nella società civile tra Italia e Cina. Non si tratta di una ricerca sistematica, ma di un percorso in cui ci soffermeremo su alcune storie e alcuni casi che ci sono parsi più significativi, senza pretesa di esaustività.
Negli ultimi quarantacinque anni la Cina è cresciuta rapidamente fino a diventare la seconda economia del mondo e sotto il presidente Xi Jinping anche la sua politica estera si è fatta sempre più aggressiva.
Vuoi approfondire la situazione politica della Cina di oggi?
Allora, da dove iniziare? È la stessa domanda che ci siamo poste anche noi nello scrivere quest'inchiesta. I nodi della rete sono così intricati che non sapevamo quale districare per primo. Allora abbiamo deciso di lasciar scegliere a te: seleziona quale delle tre scatole scoperchiare per prima. Ognuna di esse riguarda uno degli aspetti su cui ci siamo concentrate, - associazioni, accademia e istituzioni. Se non sai da dove cominciare, seleziona la prima scatola e fatti guidare da noi.
Un ultimo sguardo
Istituzioni, associazioni della società civile, mondo accademico: con un'inchiesta durata mesi abbiamo cercato di mappare i diversi ambiti in cui il Partito comunista cinese, cerca di estendere la sua influenza in Italia. Seppur gli scopi siano a volte sotterranei, i modus operandi ci sembrano evidenti: alcuni sono esempi di sharp power, che si camuffano e approfittano dell'apertura dei sistemi democratici per manipolare gli interlocutori spesso inconsapevoli. Rimaniamo con una domanda: quanto sono efficaci questi tentativi?
"Pensateci un attimo, è una cosa che fa impressione. Accetteremmo di avere in tutta l'Italia forse 50 persone che sono in grado di leggere correntemente e comprendere appieno quello che pubblica il New York Times?"
Daniele Brigadoi Cologna, professore di lingua cinese e istituzioni di lingua cinese all'Università degli studi dell'Insubria
Un giornalista che preferisce rimanere anonimo ci ha raccontato di quando qualche anno fa è stato contattato dall'ambasciata cinese a Roma. L'allora responsabile dell'ufficio stampa domandava una "lista di nomi dei giornalisti amici della Cina", promettendo in cambio un'intervista esclusiva con l'ambasciatore cinese in Italia.
Il giornalista in questione ha declinato l'offerta, aggiungendo che al massimo poteva fornire "una lista di nomi di giornalisti", senza listarli quali "amici della Cina" o meno. Episodi come questo probabilmente si verificano più spesso di quanto viene riportato. Oltre a essere indicativi di una precisa volontà di interferire nel dibattito pubblico nazionale, mostrano la scarsa comprensione che le istituzioni cinesi spesso hanno dei meccanismi democratici - carta che a volte gioca a loro sfavore.
Anche la ricercatrice Mareike Olhberg ricorda che "non bisogna credere che il Partito sia un genio assoluto" e che non tutti i suoi tentativi di influenza sono architettati nei minimi dettagli e vanno a buon fine. Il messaggio della propaganda cinese cresce dove trova il terreno fertile per germogliare. In Italia, più che l'efferatezza dei tentativi cinesi di ingerenza, pare sia l'impreparazione a renderci "una preda facile", come titola il report Synopsis.
"Pensateci un attimo, è una cosa che fa impressione. Accetteremmo di avere in tutta l'Italia forse 50 persone che sono in grado di leggere correntemente e comprendere appieno quello che pubblica il New York Times? Però sembra normale quando si parla di Cina. È insensato e suicida. Ed è una situazione che non ha grandi paralleli in giro per l'Europa, in Germania per esempio la situazione è diversa" commenta il docente Brigadoi Cologna.
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I sinologi italiani, sia quelli che lavorano negli Istituti Confucio sia quelli che invece li vorrebbero fuori dalle Università, esprimono fortissima preoccupazione per la mancanza di conoscenze sulla Cina in Italia. "È possibile che i giornalisti inviati in Cina spesso non sappiano neanche la lingua? Delle volte mi accorgo che vengono dette certe inesattezze…" lamenta Stefania Stafutti dell'Università di Torino. "Purtroppo ad oggi sono davvero pochissimi i giornalisti italiani che utilizzano direttamente fonti originali in cinese, preferendo riprendere quanto già scritto da altri, magari in inglese” aggiunge Alessandra Lavagnino dell'Università degli studi di Milano.
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"In Italia, rispetto ad altri paesi europei, manca una grande tradizione di esteri" ci racconta un giornalista esperto di Cina. "Spesso si legge la Cina attraverso un filtro occidentale, oppure si cade nell'eccezionalismo cinese che giustifica (quasi) tutto".
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La mancanza di conoscenze approfondite che dilaga nei media contagia anche la politica, secondo il professor Scarpari: "Chi ci governa ha delle posizioni improvvisate sulla Cina. Infatti dal siglare un Memorandum che è stato spacciato come operazione di tipo commerciale - cosa che non è, è un’operazione politica - adesso si è passati al Golden power e poi chissà…". "Male informato, polarizzato, legato a dinamiche interne" così Filippo Fasulo dell'Ispi definisce il dibattito politico italiano sulla Cina. Eccetto il Movimento 5 stelle, tra i più filocinesi, e Fratelli d'Italia, il partito con posizioni più dure verso la Cina, negli altri partiti si trovano le posizioni più variegate a seconda dell'occasione.
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Cosa fare quindi per combattere questa cronica impreparazione? Conclude Stafutti: "L'unica difesa è sempre la maggiore conoscenza che consente entro certi limiti di vigilare un po' sugli stereotipi, di mantenere una posizione critica. In questo i media giocano un ruolo importante. Di solito la narrazione sulla Cina è molto sensazionalistica. In quanto giornalista è il tuo compito porre problemi e anche provocare, ma devi farlo con onestà intellettuale.”
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"È facile per le organizzazioni ufficiali cinesi dominare il dibattito e riprodurre le loro narrative senza che queste vengano messe in discussione" commenta la ricercatrice Mareike Ohlberg. Questo accade "perché non c'è molta conoscenza approfondita della Cina né di come il Partito-Stato funzioni"; "non basta aprire l'ennesimo istituto di lingua e cultura, bisogna risolvere la mancanza di conoscenza politica", conclude la ricercatrice.
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"Abbiamo codici di condotta per giornalisti, dottori e altre categorie ma non ne abbiamo uno per gestire i regimi autoritari" afferma Ohlberg. Secondo la ricercatrice servirebbe una guida per capire come interfacciarsi con istituzioni autoritarie, quali fondi accettare e come gestire i tentativi di intimidazione o censura. Ohlberg sottolinea la necessità di maggiore trasparenza nei rapporti con la Cina. "Un esempio virtuoso è quello della Middle Eastern Studies Association statunitense che per ogni episodio che minaccia la libertà accademica, come un intervento diretto di un governo della regione, si rivolge all'ambasciata e rende pubblica la vicenda" riporta la ricercatrice.
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Nel dibattito sulla Cina, su che tipo di relazione vogliamo con Pechino e su come comportarci nei confronti di un paese sempre più aggressivo, l'Italia è arrivata tardi. Il dibattito sta iniziando a prendere piede e c'è molto ancora da fare. Maggiore trasparenza nei rapporti con la Cina e linee di comportamento chiare alle quali rifarsi potrebbero essere un primo passo per far sì che gli attori che si interfacciano con Pechino continuino a creare ponti ma siano consapevoli e pronti a gestirne l'influenza.