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Inchiesta giornalistica 
sui rapporti Italia-Cina 
a livello politico, culturale, accademico

Sezioni di approfondimento 
sul rapporto tra le istituzioni italiane e cinesi, gli Istituti Confucio e la comunità cinese in Italia.

Aprire le Scatole Cinesi

Primavera 2021, tra le aule e nel cortile dell'Università di Groningen nei Paesi Bassi si avverte un certo fermento. Circola una petizione, alcuni studenti stanno protestando per chiedere la chiusura dell'Istituto Confucio. Non accettano che all'Istituto siano utilizzati solo materiali di studio approvati dal Partito comunista cinese e lo considerano una minaccia per la libertà accademica di studenti e professori. 

 

Noi, Sofia Turati e Margherita Capacci, studiamo giornalismo nella piccola città olandese e guardiamo con interesse alla protesta. Perché tanto clamore per un istituto di lingua? Informandoci, scopriamo che Groningen non è un caso isolato e la preoccupazione per la presenza di questa istituzione dentro l'università si percepisce anceh altrove in Europa. Eppure in Italia non abbiamo mai sentito di alcun dibattito a riguardo.  

 

Sembra che la maggior parte del nostro paese si sia accorta della dimensione politica della relazione con la Cina soltanto nel 2019, quando la firma del Memorandum d'intesa sulla Via della seta è finita prepotentemente tra le prime pagine dei giornali italiani e stranieri. Però da allora in Italia l'interesse verso Pechino è rimasto sporadico e il dibattito pubblico sul tema rimane abbastanza piatto e decisamente polarizzato.

 

Vogliamo capirne di più. Contattiamo una giovane ricercatrice esperta di relazioni Italia-Cina, Ludovica Meacci. Partiamo insieme dall'idea di indagare i legami del Partito comunista cinese  con l'accademia italiana. Non ci aspettavamo che nei quattro mesi di indagine avremmo scoperchiato un vaso di Pandora. O meglio, che avremmo aperto le 'scatole cinesi', trovandoci ambasciatori e imprenditori indagati per corruzione, istituti 'di cultura' che paiono entità più politiche che culturali, chi pensa che la Cina in fondo sia una democrazia e chi chiude un occhio in nome degli affari. Abbiamo anche incontrato tante persone appassionate, che testimoniano con la loro attività quotidiana di giornalisti, docenti o ricercatori che è possibile raccontare la complessità cinese al di là di stereotipi e dicotomie semplicistiche.

 

In quest'inchiesta mettiamo in luce i legami in ambito istituzionale, accademico e nella società civile tra Italia e Cina. Non si tratta di una ricerca sistematica, ma di un percorso in cui ci soffermeremo su alcune storie e alcuni casi che ci sono parsi più significativi, senza pretesa di esaustività.

Negli ultimi quarantacinque anni la Cina è cresciuta rapidamente fino a diventare la seconda economia del mondo e sotto il presidente Xi Jinping anche la sua politica estera si è fatta sempre più aggressiva.

Vuoi approfondire la situazione politica della Cina di oggi?  

Cosa si pensa a Roma di Pechino

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Le tappe fondamentali della politica cinese e delle relazioni Italia-Cina.

Il momento di maggiore attenzione politica verso le relazioni Italia-Cina è arrivato nel 2019, quando l'Italia divenne il primo paese del G7 a firmare il Memorandum d'intesa sulla collaborazione nell'ambito della Via della seta economica e dell'iniziativa per una Via della seta marittima del 21° secolo. 

 

Sul Memorandum si è detto di tutto, in Italia e all'estero.

 

Eppure nel 2017, l'allora capo di governo Gentiloni era stato l'unico leader del Gruppo dei sette (G7) a presenziare al primo Forum sulla Via della seta senza che questo avesse attirato troppe critiche; nel 2015 subito dopo il Regno Unito, l'Italia entrò a far parte dell'Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), insieme a Francia e Germania, con buona pace degli Stati Uniti. Addirittura, al World Economic Forum di Davos nel 2017 Xi Jinping venne presentato come "alfiere della globalizzazione" e "argine all'isolazionismo americano".

 

Quindi, perché c'era tutta questa attenzione per la firma del Memorandum appena due anni dopo? Cosa era cambiato? Tutto. "Era cambiata l'Italia, era cambiata la Cina, ed era cambiato il contesto internazionale" ci dice Filippo Fasulo, co-head dell'Osservatorio di geoeconomia dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi). 

 

"Ma il governo italiano dell'epoca non lo aveva capito. Il governo giallo-verde di M5S e Lega aveva una fortissima inesperienza nelle relazioni internazionali" ricorda Fasulo. 

 

Nel settembre 2018 però la percezione della Cina a livello globale si stava modificando: i sondaggi del think tank statunitense Pew Research Center mostrano che in Europa una timida maggioranza esprimeva un'opinione negativa della Cina. L'ascesa cinese iniziava a destare preoccupazione anche nell'Asia-Pacifico e  la nuova amministrazione Trump aveva iniziato da qualche mese la guerra commerciale a colpi di dazi. Così con un pessimo tempismo, mentre l'Unione europea additava la Cina come "rivale sistemico che promuove sistemi di governance alternativi", nel marzo 2019 il governo italiano ha firmato il Memorandum sulla Via della seta. 
 

Nonostante la firma del Memorandum e anche a causa della pandemia di Covid-19, le esportazioni italiane verso la Cina non hanno poi registrato aumenti significativi negli anni successivi. Complici le pressioni statunitensi, pure gli accordi di investimenti tra Roma e Pechino non sembra siano andati molto lontano

 

Quello che sicuramente è rimasto invece è una visione negativa di Pechino e un dibattito polarizzato. Con la pandemia, la reputazione della Cina nel mondo si è ulteriormente deteriorata: nel 2020 la reputazione cinese in buona parte del Vecchio Continente è ai minimi storici. Questa tendenza si è riconfermata nel 2022. Alle opinioni negative sulla gestione del Covid-19 si sono aggiunte quelle sui diritti umani, in particolare quelle sugli abusi delle minoranze turcofone nella regione nord-occidentale dello Xinjiang.

 

Allora, da dove iniziare? È la stessa domanda che ci siamo poste anche noi nello scrivere quest'inchiesta. I nodi della rete sono così intricati che non sapevamo quale districare per primo.  Allora abbiamo deciso di lasciar scegliere a te: seleziona quale delle tre scatole scoperchiare per prima. Ognuna di esse riguarda uno degli aspetti su cui ci siamo concentrate, - associazioni, accademia e istituzioni. Se non sai da dove cominciare, seleziona la prima scatola e fatti guidare da noi. 

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Le Associazioni

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Presentazione del libro Xi Jinping: Governare la Cina tenutasi il 20 settembre 2017 a Palazzo Giustiniani, sede della presidenza del Senato della Repubblica. Fonte: pagina Facebook dell'Istituto per la Cultura Cinese.

È il 20 settembre 2017 ed è un momento di grande lustro per l'Istituto per la Cultura Cinese a Roma. Il suo presidente Pietro Maran del Partito Democratico ha organizzato la presentazione del libro del Presidente della Repubblica popolare cinese Xi Jinping: Governare la Cina, ovvero una raccolta di discorsi, conferenze, interviste ed estratti di corrispondenze in cui il presidente dello stato autoritario raccoglie i principi cardine della sua politica. L'allora presidente del Senato, Pietro Grasso, presente all'evento, afferma: "Gli italiani possono trarre esempio e motivo di incoraggiamento dall'atteggiamento positivo con cui da parte cinese si guarda all'avvenire". 

L'Istituto per la Cultura Cinese conta alcune figure di spicco della politica italiana ed è stato particolarmente attivo fino alla firma del Memorandum sulla via della seta. Oggi i suoi vertici sono cambiati e l'attuale presidente è Ettore Rosato, vicepresidente della Camera dei deputati e coordinatore nazionale di Italia Viva, il quale rifiuta le nostre richieste di interviste. Non riceviamo risposta neanche dal vicepresidente Davide Antonio Ambroselli, anche lui collaboratore di Italia Viva. Proviamo infine a scrivere all'indirizzo e-mail ufficiale dell'Istituto, ma risulta ormai disattivato. 
 

Questa realtà non è un caso isolato, negli ultimi anni è sorta una galassia di associazioni che stringono legami tra il nostro paese e la Cina. 


 

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Basta inserire le tre parole chiave  "associazioni", "Italia", e "Cina" sul motore di ricerca per rendersi conto che gli attori in gioco sono tanti.

Queste associazioni favoriscono importanti scambi economici e culturali tra i due paesi. Ci chiediamo però se la vicinanza a un paese autoritario come la Cina possa in alcuni casi nascondere delle criticità.

 

Il report Una preda facile dell'Istituto ceco Synopsis dedica
ampio spazio alle associazioni italo-cinesi, le quali,

grazie a "vaghi appelli alla promozione
dell' 'amicizia', della 'cultura' e del commercio aiutano ad arruolare figure che possono diventare strumenti anche inconsapevoli" della propaganda
del Partito comunista cinese.

 

All'uscita del report si sono sollevate voci contrastanti. C'è chi lo ha definito "una lista di proscrizione" come Daniela Caruso, professoressa di studi sulla Cina presso l'Università della Pace a Roma, mentre diverse testate invece hanno lanciato la notizia con allarme: "Così l'Italia abbocca alla propaganda cinese" titola ad esempio La Repubblica.

 
 

Il Fronte unito

Uno dei veicoli con cui il Partito comunista cinese cerca di diffondere la sua propaganda e di espandere la sua influenza è il sistema del Fronte unito. Si tratta di una strategia nota per lo più agli specialisti e  portata avanti da diversi attori che tradizionalmente agiscono nel panorama domestico cinese per promuovere gli interessi del Partito. Parte del lavoro del Fronte unito, però, si svolge anche all'estero, dove le sue attività sono motivo di crescente dibattito. 

 

In uno dei report più completi sul tema, Alex Joske dell'Australian Strategic Policy Institute (Aspi) lo definisce come una "coalizione di entità che lavorano per raggiungere gli obiettivi del Partito comunista cinese (Pcc)". 

"Il ruolo del Pcc nel gestire il Fronte unito rimane spesso nascosto, ma questo insieme di istituzioni si espande oltre ai confini cinesi" con l'intento, tra gli altri, di "minare la coesione sociale [e] l'integrità dei media, influenzare la politica, facilitare lo spionaggio e anche il trasferimento di tecnologie senza la dovuta supervisione" si legge nel documento. 

Una componente centrale del sistema del Fronte unito sono le associazioni di amicizia con i vari paesi. Ma non solo: ne fanno parte anche agenzie, organizzazioni sociali, aziende, università, istituti di ricerca e singoli  individui, scrive Joske.

 

"Il Fronte unito è una strategia che il Pcc impiegò in diverse occasioni per fare fronte comune con forze politiche diverse, quando c'erano obiettivi condivisi a breve o medio termine" spiega Daniele Brigadoi Cologna, professore di lingua cinese e istituzioni di lingua cinese all’Università degli studi dell’Insubria. "In termini più estesi, si intende per Fronte unito anche la politica di cooptazione di forze politiche diverse ma sostanzialmente favorevoli alla primazia del Pcc" continua il professore. "Nelle relazioni internazionali della Repubblica popolare, il Dipartimento per il lavoro del Fronte unito, che fa capo al Comitato centrale del Pcc, opera per creare contatti e relazioni con soggetti potenzialmente amici - o quantomeno non ostili - in altri paesi, con l’intento di promuovere un orientamento favorevole alla Cina e al Partito comunista" spiega Brigadoi Cologna.

 

"Oggigiorno il Fronte unito aiuta il Pcc a rivendicare la sua legittimità, mobilizza i suoi sostenitori e gestisce le possibili minacce" scrive Joske, sottolineando il suo ruolo nella gestione di dossier sensibili come quelli delle regioni del Tibet e dello Xinjiang. 

Vuoi saperne di più su come lavora il Fronte unito? Continua a leggere.

Per saltare alla sezione successiva, clicca qui.

“The United Front … is an important magic weapon for strengthening the party’s ruling position … and an important magic weapon for realising the China Dream of the Great Rejuvenation of the Chinese Nation” —Xi Jinping, at the 2015 CCP Central Committee's Work Conference on United Front] 

“Il Fronte unito (…) è un’importante arma magica per rafforzare la posizione dominante del Partito (…) e per realizzare il sogno cinese del grande ringiovanimento della nazione”, Xi Jinping, alla conferenza di lavoro del Comitato centrale del Pcc sul Fronte unito.

Il Fronte unito cerca spesso di coinvolgere nelle sue attività anche la diaspora cinese. Chiediamo un commento a Gao Shuai, in Italia conosciuto come Sergio, imprenditore milanese di origini cinesi e presidente dell'Associazione per lo sviluppo economico e culturale internazionale (Aseci). Secondo lui

"tutte le associazioni della comunità cinese riconosciute da consolato e ambasciata cinese
vanno collegate [al Fronte unito]. In Italia
ci sono più di cento associazioni della comunità cinese, solo a Milano più di 20, poi a Roma,
Firenze, Prato, eccetera".

"Spesso gli imprenditori membri di queste associazioni ragionano in questo modo: sono un cittadino della Repubblica popolare cinese che vive all'estero, ho un'impresa importante con alle mie dipendenze decine di persone, la maggior parte di loro sono cinesi. Ho ovviamente un ruolo sociale. Se viene riconosciuto dalla mia madrepatria sono contento" aggiunge il professor Brigadoi Cologna. "Il mandato politico di queste associazioni è interpretato con efficacia e profondità variabile a seconda della cultura personale di coloro che le compongono. Non bisogna pensare che siano completamente irregimentati dal Partito". 

Una tra le tante associazioni locali volte a incrementare scambi economici tra Italia e Cina è la Fondazione Progetto Italia-Cina di Trento, sotto la guida dell'imprenditore Wang Xin, arrivato nel capoluogo trentino per uno scambio universitario nel 2005. La sua associazione si presenta in primo luogo come una finestra tra docenti e studenti universitari cinesi e italiani per "promuovere innanzitutto nel settore culturale la relazione bilaterale tra i due paesi", ci racconta l'imprenditore in videochiamata da Chengdu, capitale della provincia sud-occidentale del Sichuan; nel concreto, però, si occupa principalmente di supportare aziende italiane che vogliono fare investimenti in Cina e fornire informazioni sul mercato cinese e sichuanese.

Stando al sito della sua associazione,
lo stesso Wang è anche membro speciale su invito della Conferenza politica consultiva cinese del Sichuan, ovvero il corrispettivo provinciale di una delle organizzazioni chiave per il lavoro del Fronte unito
[ > ne parliamo qui]. Però, quando chiediamo di eventuali legami tra la Fondazione Progetto Italia-Cina e il Fronte unito,  Wang Xin nega categoricamente.

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Il presidente della Fondazione Progetto Italia Cina Wang Xin, in videochiamata.

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Sergio Gao Shuai, presidente dell'Associazione per lo sviluppo economico e culturale internazionale (Aseci). Gao ci racconta dei suoi rapporti con il governo cinese e del Fronte unito.

Alla nostra domanda sul Fronte unito, Sergio Gao Shuai rimane in silenzio, si appoggia allo schienale della sedia e con un sorriso espira: "Io devo essere un uomo molto libero e molto internazionale". Aggiunge che sarebbe favorevole a un Fronte unito che lavori per la coesione territoriale, ma se il Fronte unito agisce prendendo il "tuo braccio e dice[ndoti]  'vieni con me', [allora] no, io devo venire con la libertà". Lo scambio culturale, secondo Gao, deve essere libero e aperto, se "uno lavora per [il] governo come ambasciatore e console non c'è più libertà". 

Con più di 100 anni di storia familiare in Italia, Gao ci incontra in completo nero e un sorriso perpetuo nell'ufficio della sua associazione Aseci a Milano. La sua avventura nelle relazioni diplomatiche, ci racconta, è cominciata quando il comune di Milano l'ha chiamato per ricevere una delegazione nazionale cinese durante l'Expo del 2016 e ha raggiunto il culmine nel 2017 quando è stato parte della delegazione che ha accompagnato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a Pechino: "É stata la prima volta in Italia che un cittadino cinese [ha] accompagnato il Presidente della Repubblica" racconta con orgoglio. 

L'associazione Aseci si occupa di sviluppare le relazioni economiche e culturali e, a quanto dice Gao, ha un'attività intensa: accoglie delegazioni cinesi, coordina e organizza eventi che avvicinano la comunità cinese ed italiana, e accompagna delegazioni di imprenditori e politici italiani in Cina. L’associazione sembra avere il sostegno delle autorità cinesi che a detta di Gao fino al 2021 avevano fornito un ufficio all'associazione in Cina, nonché regole semplificate per fare affari a Chengdu. Nonostante questo, Gao precisa varie volte di non avere legami diretti con l'ambasciata cinese in Italia e che i finanziamenti della sua associazione derivano principalmente dalle sue risorse personali. Quando gli chiediamo se riceva finanziamenti dal Partito comunista cinese ci risponde di no, perchè nell'ottica di voler aiutare la comunità cinese prendere soldi dall'ambasciata o dal Partito sarebbe una "vergogna". 

Alla luce delle nostre conversazioni con due imprenditori cinesi in Italia, presidenti di associazioni che collegano i due paesi, ci chiediamo quanto sia efficace il lavoro del Fronte unito nella nostra penisola. "All'interno della Cina funziona, fuori dipende dai contesti" dice il professore Brigadoi Cologna "gli sforzi ci sono e sono percepibili. Ma poi funzionano? Per ora mi pare che abbia un impatto limitato".
 

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Chi sono i cinesi d'Italia?
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Marco Wong, presidente onorario di Associna, e Daniele Brigadoi Cologna, professore associato all'Università dell'Insubria, ci raccontano chi sono i cinesi d'Italia

Propaganda inconsapevole?

Il report Una preda facile evidenzia che la scarsa conoscenza del sistema politico cinese è uno dei maggiori fattori che possono mettere le associazioni di amicizia italiane a rischio d'influenza del Partito comunista cinese. Il professore Brigadoi Cologna è d'accordo: a proposito degli imprenditori italiani che si rapportano al Fronte unito commenta:

"Spesso queste persone non capiscono
nulla della Cina. Sono convinte di aver capito
tutto di questo paese solo perché qualcuno
gli ha offerto un banchetto di qua e uno di là
e hanno amici con biglietti da visita altisonanti". 

Una comprensione distorta ci arriva ad esempio da Michele de Gasperis, presidente del'Istituto OBOR a sostegno del progetto della Via della seta, che descrive l'azione del Fronte unito come "una delle pratiche più interessanti per l'espansione di un Sistema Paese". E aggiunge "mettere a sistema tutte le imprese e le personalità necessarie per ergersi a difesa degli interessi nazionali è un approccio che garantisce quella continuità e unità che a volte manca anche ai nostri comparti nazionali, spesso disgregati". 

Il progetto dell'Istituto OBOR, sigla per 'One Belt One Road', un altro nome per indicare la Via della seta, è nato nel 2018 e oggi suona già quasi anacronistico. Il progetto della Via della seta è stato infatti molto ridimensionato dopo la pandemia (> ne abbiamo parlato sopra). Tra i più grandi successi dell’Istituto il presidente Michele De Gasperis cita l’organizzazione della 'Belt and Road Exhibition' che definisce "il più grande evento annuale italiano ed internazionale dedicato alle relazioni istituzionali, commerciali e culturali italo-cinesi". Questo evento ha ricevuto anche l'appoggio delle varie Camere di commercio miste, che il report Una preda facile inquadra sotto l'ombrello del Fronte unito. 

"Quando manca una conoscenza approfondita" commenta l'autrice de La mano invisibile e ricercatrice del German Marshall Fund di Berlino Mareike Ohlberg "è facile diventare strumenti anche inconsapevoli di propagand". In effetti, in alcune delle intervieste svolte troviamo certe tematiche care alla macchina della propaganda cinese dell'epoca di Xi Jinping: la scomparsa della povertà, il successo del modello cinese e l'impatto positivo del Memorandum sulla via della seta. Ritroviamo questi messaggi nelle parole di alcuni intervistati. 

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La Fondazione Italia Cina

"È un bellissimo progetto che non è stato sempre  ben capito" dice ad esempio il presidente della Fondazione Italia Cina Mario Boselli riguardo alla Via della seta. Nonostante il rallentamento dovuto a pandemia e guerra in Ucraina, "mi pare un'opportunità da cogliere, anche per l'Italia" aggiunge. 

Con più di 200 soci e sedi a Milano, Pechino e Chongqing, la Fondazione ha l'obiettivo di supportare flussi di persone, capitali e investimenti tra i due paesi. Presidente della Fondazione è dal 2020 Mario Boselli, cavaliere del lavoro e con una solida carriera nella presidenza della Camera della moda alle spalle. 

 

L'elegante ottuagenario Boselli ci da il benvenuto nel suo ufficio. Dalle finestre che si affacciano direttamente sui giardini di Porta Venezia a Milano la luce illumina le pergamene con caratteri cinesi e le colorate stampe a temi floreali appese alle pareti. Dal 2017 Boselli è anche presidente dell'Istituto Italo Cinese, che lo scorso 18 maggio ha festeggiato i 50 anni di attività culturale tra Italia e Cina con un evento al Senato. L'Istituto e la  Fondazione intrattengono da sempre forti legami.

 

Tra le associazioni che creano ponti tra le imprese dei due paesi, la Fondazione Italia Cina è una tra più autorevoli. Sulla homepage del sito il logo della neonata Italy China Council Foundation troneggia in alto, dopo che lo scorso 28 giugno la Fondazione si è fusa con la Camera di commercio Italo-Cinese (ricordiamo come il report Una preda facile sottolinei legami tra le Camere di commercio e il lavoro del Fronte unito)[Vuoi saperne di più sul Fronte Unito? Leggi qui]. 

 

L'ufficio stampa della neonata associazione e l'ex segretario generale della Camera di commercio italo cinese Marco Bettin ci dicono di non aver avuto alcun legame con il Fronte unito. Quando invece chiediamo un commento al presidente della Fondazione Italia Cina Mario Boselli, ammette di non averne mai sentito parlare.

Dalla sua creazione nel 2003 la Fondazione ha avuto un ruolo centrale nello scambio economico tra Italia e Cina. "All'epoca per avere relazioni economiche con la Cina era necessaria una relazione istituzionale: la Fondazione svolgeva questo ruolo" ci dice Filippo Fasulo, ex direttore del Centro studi della Fondazione e ora co-head dell'osservatorio di geoeconomia di Ispi (Istituto per gli studidi politica internazionale). Quando l'accesso al mercato cinese è diventato più semplice, aggiunge, "la Fondazione ha sviluppato una dimensione di consulenza/assistenza alle imprese in senso più generale".

Il ruolo istituzionale della Fondazione è però tornato a rinvigorirsi sotto la presidenza di Mario Boselli. Oltre ad aver ricominciato a fare utili dopo anni di difficoltà economica, come ci spiega lo stesso Presidente, la Fondazione "ha ristabilito dei rapporti al massimo livello di grandissima cordialità e collaborazione" con l'ambasciatore italiano in Cina Luca Ferrari e l'ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese in Italia Li Junhua, nonché con il consolato generale a Milano e altre istituzioni.

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Mario Boselli, presidente dell'Istituto Italo-Cinese e della Italy China Council Foundation (già Fondazione Italia Cina). Boselli spiega la sua visione dei rapporti tra Italia e Cina, paese autoritario accusato di violazioni di diritti umani.

Abbiamo parlato anche di politica interna cinese. La sconfitta "della povertà assoluta" in Cina è un messaggio che sta molto a cuore al presidente Xi Jinping, come anche l’esaltazione degli aspetti positivi della Via della seta. Mario Boselli ce ne parla con tono convinto come della "storia clamorosa di un paese, l'unico, che abbia avuto tali e tanti cambiamenti così rilevanti in poco tempo". E aggiunge che la Cina ha sollevato milioni di persone dalla fame tra gli anni '80 e oggi, entrando nell'Organizzazione mondiale del commercio e cominciando a seguire "un percorso virtuoso di rispetto delle regole contro l'inquinamento" e "rispetto delle leggi sul lavoro", arrivando poi oggi ad essere un grande "laboratorio per il futuro". 

 

Questa ascesa però non è stata senza costi. "L'alleviazione della povertà nella Cina rurale si è concentrata soprattutto nel supporto dell'economia locale, invece che nell'assicurazione sociale, l'educazione, e i sostegni alle famiglie” scrive Camille Boullenois su China Perspectives. Questo va a creare un sistema di gerarchie da cui è difficile uscire per la popolazione rurale. In alcune regioni, inoltre, l'alleviazione della povertà è portata avanti in maniera forzata; chi resiste è sottoposto a un'"educazione ideologicache lo allinea alle priorità del Partito. È il caso degli Uiguri e altre minoranze turcofone dello Xinjiang, le cui violazioni di diritti umani sono ampiamente documentate da fonti come gli Xinjiang Police Files

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Boselli però afferma che "ogni paese ha le sue peculiarità, la sua storia e la sua cultura. "Io starei attento a fare il saggio in casa d'altri, preferisco fare il matto in casa mia, per forzare un po' il concetto". Ci racconta come esempio positivo di come nel 2018 l'Istituto Italo Cinese abbia ricevuto una delegazione della China Society for Human Rights Studies (Cshrs), una delle più grandi Gongo (Organizzazioni non-governative organizzate dal governo) cinesi.

L'attuale presidente di Cshrs è anche vicepresidente del Comitato permanente dell'Assemblea nazionale del popolo, l'unica camera legislativa della Cina. Si tratta quindi di una figura tutt'altro che super partes. "Le personalità che sono prese di mira e che non hanno alcuna conoscenza del sistema politico cinese spesso non si insospettiscono quando si trovano a interagire con delle ongo 'think tank', oppure quando vengono coinvolte in 'dialoghi' o attività di 'amicizia' organizzati dal Partito" si legge nel report Una preda facile.

Interrogato sulla libertà di espressione della Fondazione Italia Cina e dell'Istituto Italo Cinese in tema di violazioni di diritti umani, il presidente Boselli ci risponde che entrambi godono di piena libertà. Tuttavia il concetto di armonia, su cui dice di basare la sua gestione della Fondazione, "sconsiglia di affrontare temi contingenti come quelli".

"La Fondazione come ruolo ha quello di creare un ponte di comunicazione" in un contesto in cui manca, risponde Filippo Fasulo, ex direttore del Centro studi per l'impresa della Fondazione Italia Cina (Cesif) e ora co-head dell'Osservatorio di geoeconomia di Ispi. "Ci sono altri soggetti che si occupano di informare sulle violazioni dei diritti umani in Cina. Questo non vuol dire che non si è tenuti a sapere cosa succede, però non è quello il ruolo primario della Fondazione". 

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Daniela Caruso e il report Xinjiang
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Daniela Caruso, docente di studi sulla Cina presso il dipartimento OBOR dell'Università della Pace a Roma, spiega perché ha firmato il rapporto Xinjiang: capire la complessità, costruire la pace.

L'Associazione di Amicizia Italia Cina

"Tutto distrutto, restano i rapporti umani" racconta Irene Pivetti, parlando dell' Associazione di amicizia Italia-Cina di cui era presidente. "Ricevevamo due delegazioni cinesi a settimana quando erano poche, le facevo incontrare con 5/10 imprese italiane, e io andavo in Cina tutti i mesi. Adesso bisogna guardare in faccia la realtà, quelle cose non si possono fare più, non ci sono più lo spazio di mercato e la disponibilità culturale".

Seguiamo Irene Pivetti nel seminterrato della cooperativa sociale Manifatture Arte e Cuoio, che aiuta persone in povertà a trovare lavoro, come lei ci racconta. In un fitto labirinto di stampe africane, ceramiche cinesi, targhe celebrative e scaffali carichi di faldoni, ci riferisce che in quegli spazi insieme a lei lavorano altre 30 persone. Alle spalle della sua scrivania campeggiano alcuni cimeli della sua vita precedente: una sua foto insieme a Papa Wojtyla,  premi e targhe ricevuti da autorità cinesi e non solo. Seconda donna ad essere eletta presidente della Camera nel 1994 nelle file della Lega Nord, Pivetti diventa poi imprenditrice specializzata in import-export con la Cina, ritenta la via politica fondando il partito di centrodestra Italia Madre alle elezioni europee del 2019, e viene poi travolta nel 2020 da due vicende giudiziarie.

Il marchio dell'imprenditrice Pivetti in Cina è stato dal 2011 quello della rete di imprese Only Italia, dichiarata fallita il 24 febbraio 2022 dal Tribunale di Roma a seguito del blocco dei pagamenti dovuto alle inchieste giudiziarie aperte nel 2020. Mentre i primi anni di vita di Only Italia sono stati segnati da una serie di insuccessi, Pivetti rivela cosa le ha permesso di voltare pagina: "Dopo vari tentativi fatti di alti e bassi nel mercato cinese ho capito che bisogna passare dalla politica. Il mercato cinese non esiste, esiste solo una simulazione di mercato e non accade nulla che non sia deciso dalla politica. Visto che la nostra politica è inetta avevo deciso di appoggiarmi alla loro di politica" ricorda. 

 

Oltre al ruolo di imprenditrice, Irene Pivetti è stata per anni anche una fervida animatrice di  associazioni di ponte tra Italia e Cina. Con la sua Fondazione per lo Sviluppo Italia-Cina gestiva i rapporti con le imprese cinesi su suolo italiano, come ci spiega lei stessa, mentre l'Associazione di amicizia Italia-Cina di cui era presidente puntava ad incrementare gli scambi economici e culturali tra i due paesi. Nella Fondazione perlo Sviluppo Italia-Cina non mancavano stretti incontri con la politica locale cinese e un forte supporto al progetto della Via della seta.

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Irene Pivetti, già presidente della Fondazione per lo Sviluppo Italia-Cina, dell'Associazione di amicizia Italia Cina e del gruppo Only Italia, incontra nel 2017 la delegazione economica e commerciale della città di Tianjin, nell'ambito della Via della seta. Fonte: pagina Facebook della Fondazione per lo Sviluppo Italia-Cina. 

Secondo la ricercatrice di Merics Lucrezia Poggetti, l'Associazione di amicizia Italia-Cina di cui Pivetti era presidente, sarebbe collegata all'Associazione per l'amicizia del popolo cinese con i paesi stranieri (Cpaffc nell'acronimo inglese), un'agenzia di punta per le operazioni di influenza straniera del Fronte unito. È la stessa Associazione a presentarsi come "il ramo italiano" della Cpaffc; inoltre, stando a quanto rivelato nello studio di Poggetti del 2019, la ex presidentessa della Camera Pivetti avrebbe incontrato ufficiali del Fronte unito in un viaggio in Cina del 2019. Anche l'Istituto Italo Cinese nel 2018 ha rinnovato i suoi accordi con la Cpaffc. 

 

Così, interroghiamo anche Irene Pivetti sui suoi legami con il Fronte unito.
"Non saprei nemmeno se esiste, non ne ho mai sentito parlare" risponde con un sorriso. 

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Irene Pivetti risponde alla domanda sui rapporti con il Fronte unito e sulle possibili influenze del Partito comunista cinese.

Della Via della seta invece Pivetti parla come di come una "serissima e importante operazione" che avrebbe dato accesso privilegiato all'Italia al mercato cinese. Dopo il lockdown dovuto al Covid-19 e la polarizzazione politica a seguito della guerra in Ucraina, ci dice, "siamo tagliati completamente fuori da quel mondo". 


Anche in passato Irene Pivetti aveva sostenuto il progetto della Via della seta, parlando ad esempio alla conferenza del 2018 organizzata per l'iniziativa a Chengdu, nella provincia sud-orientale del Sichuan. Questo sostegno non è passato inosservato dalla controparte cinese, sempre alla ricerca di figure estere autorevoli da usare come megafoni per la propaganda anche fuori dai confini nazionali. Come leggiamo in uno studio, nel 2019 il tabloid cinese Global Times, prodotto dal Quotidiano del Popolo del Pcc, ha pubblicato un articolo in difesa del progetto della Via della seta in Italia. Definendo la critica degli Stati Uniti "ridicola", il Global Times ha scelto proprio Irene Pivetti, fotografata mentre tiene il suo discorso a Chengdu, come simbolo del supporto di cui gode il progetto nel nostro paese.

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Irene Pivetti parla al summit sulla Via della seta tenutosi a Chengdu nel settembre 2018. Fonte: Global Times (Photo: VCG).

Quando è interrogata sul tema delle violazioni dei diritti umani, Pivetti risponde con il collaudato topos del benaltrismo, menzionando altri paesi come Egitto e Libia con cui l'Italia ha stretti legami economici nonostante lo scarsissimo rispetto dei diritti umani. 

"Il tema dei diritti umani sicuramente esiste
e sicuramente esiste anche in Italia"

continua Irene Pivetti. Obietta però che "il progresso di un paese che ha quasi un miliardo e mezzo di abitanti e che parte da un estremo sottosviluppo non è una passeggiata. Tra l'altro si tratta un paese che si è dovuto risollevare da epoche buie".

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Irene Pivetti commenta l'intersezione tra politica e business in Cina.

Superficialmente si potrebbe pensare che amplificare i messaggi cari al Partito comunista cinese non abbia un grande impatto fuori dalla Cina. Eppure esaltare il valore positivo della Via della seta o la grandezza del modello di sviluppo cinese può comunque servire gli obiettivi del Pcc, afferma l'autrice de La mano invisibile Mareike Ohlberg.

 

"Anche se ogni singola associazione non ha così tanto peso, l'idea del Partito è quella di creare un coro di voci favorevoli che danno supporto alle sue politiche". Questa "impressione di un supporto diffuso è quello che il Partito [comunista cinese] cerca" secondo la ricercatrice. 

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L'accademia

Gli studenti cinesi in Italia

In ambito accademico, i legami tra Cina e Italia si sono rafforzati sempre di più negli ultimi anni attraverso accordi, convenzioni e scambi di studenti e personale universitario. La Cina arriva in Italia anche attraverso gli studenti stranieri

"Tutto quello che vedete qui hanno contribuito a pagarlo anche i cinesi" ci dice fieramente Giuliano Noci, il prorettore al polocinese del Politecnico di Milano. Lo incontriamo nel modernissimo ufficio all'interno dalle vetrate trasparenti nel dipartimento di ingegneria gestionale a Bovisa. 

Alle università italiane accogliere studenti stranieri conviene molto in primo luogo a livello di budget. "Per il Politecnico abbiamo ottenuto grandi risultati tutto sommato dando molto poco.  Proponiamo agli stranieri la stessa formazione degli studenti italiani, ma riceviamo tuition fee [tassa universitarie] più rilevanti. Per la formazione post-graduate gli studenti non europei  da noi pagano fino a 40.000 euro all'anno, sono somme importanti”. 

Secondo l'ultimo rapporto Censis, il Politecnico di Milano è il secondo ateneo in Italia per internazionalizzazione e la maggioranza degli studenti internazionali è cinese. "L' internazionalizzazione è un issue [tema] fondamentale perché tutti i ranking valutano la qualità delle università anche in base all’internazionalizzazione. Non è solo un tema economico, ma anche di qualità e di competitività" spiega Noci. Così le università italiane si contendono gli studenti cinesi cercando di rendersi sempre più appetibili.  

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 Andamento numerico delle preiscrizioni degli studenti cinesi in Italia. Fonte: Uni-Italia, 2022.

Le iscrizioni di studenti cinesi in Italia sono in crescita, eccetto per gli ultimi due anni di pandemia. Siamo però ben lontani da numeri come quelli del Regno Unito, la destinazione europea più scelta dagli studenti cinesi che in cinque anni sono aumentati del 50% come riporta l'Economist.

 

Come sottolineato dal giornale britannico, in alcuni casi la crecente dipendenza dalle rette pagate dagli studenti cinesi potrebbe compromettere la libertà accademica: nel 2019 l'Università di Nottingham ha revocato l’invito a un relatore taiwanese; a Oxford, Exeter e Potsmounth due quinti dei docenti specializzati sulla Cina hanno affermato di essersi autocensurati quando insegnavano a studenti di regimi autoritari. Secondo Noci, però, questo problema non si è mai presentato al Politecnico di Milano dove la presenza di studenti cinesi o provenienti da regimi autoritari è più ridotta. 

Gli Istituti Confucio chiudono (ma non in Italia)

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Gli scambi tra Italia e Cina sono anche favoriti dagli Istituti Confucio: "lI nostro compito è creare ponti" afferma la direttrice dell'Istituto Confucio dell'Università di Torino Stefania Stafutti. "La loro presenza è come un anaconda sopra l'università che silenziosamente ne minaccia la libertà accademica" risponde il sinologo Maurizio Scarpari, già professore presso la Ca' Forscari di Venezia.

Non hai mai sentito parlare degli Istituti Confucio?  Puoi approfondire qui

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Per la prima decade della loro storia gli Istituti Confucio (Ic) sono sorti senza suscitare particolare clamore, principalmente in territori di interesse strategico per la Cina. Il primo sul suolo italiano, attualmente il più longevo d'Europa dopo la chiusura di quello di Stoccolma, vide la luce nel 2005 all’interno dell'università Sapienza di Roma.  Da allora sono 12 gli Istituti fondati nel nostro paese, 13 con quello di San Marino. Considerando anche le Aule Confucio, cioè quei corsi di lingua e cultura cinese organizzati dagli Ic nelle scuole superiori o in sedi universitarie senza un Istituto, stime suggeriscono che nel 2019 gli Istituti Confucio abbiano avuto un totale di 230 mila studenti e che i loro eventi culturali abbiano visto più di 1.33 milioni di partecipanti.

Negli ultimi anni il dibattito pubblico guarda agli Istituti Confucio con sempre maggiore sospetto, negli Stati Uniti soprattutto. Nell'agosto 2020, l'amministrazione Trump designò gli Istituti Confucio presenti sul suolo statunitense come 'missioni di propaganda straniere', obbligandoli a registrare il personale e gli immobili a loro associati con il dipartimento di Stato, come si fa con le ambasciate e i consolati stranieri.

Il dibattito poi ha preso piede anche in Europa, anche grazie a casi come quello della Vrije Universiteit di Bruxelles dove il direttore cinese dell'Istituto è stato accusato di spionaggio. Anche l'Unione Europea si è espressa a riguardo:

nella risoluzione del marzo 2022
del Parlamento Europeo si legge che
"gli Istituti Confucio e le Classi Confucio
sono utilizzati dalla Cina come strumento
di ingerenza e che la libertà accademica
è fortemente limitata negli Istituti Confucio". 

Nel report sull'influenza cinese nelle università dell'Index on Censorship è raccolta una lista di tentativi più o meno riusciti di censura in Europa. Complici anche questi eventi, negli ultimi anni la tendenza a chiudere gli Istituti in diversi paesi europei si è intensificata.   

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Presenza degli Istituti Confucio in Europa e chiusure degli ultimi due anni (2020-2022)
Fonte: Dig Mandarin. Eleborazione delle autrici. 

 

Il dibattito in Italia

In Italia, invece, il dibattito sugli Istituti Confucio stenta ad avviarsi. L'unica occorrenza sono stati alcuni interventi di sinologi sulle pagine del Corriere della Sera, divisi tra favorevoli (la maggioranza) e contrari. Ad appiccare la miccia è stato Maurizio Scarpari, professore di  lingua cinese classica dal 1977 al 2011 presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. Ricorda che all'inizio non c'era molta attenzione per la proliferazione degli Istituti Confucio, che erano considerati da alcuni docenti italiani sostanzialmente "una specie di bancomat" per i finanziamenti che portavano. 

 

In Europa, però, molti hanno cambiato idea radicalmente sull'opportunità di installare Istituti Confucio nelle università dopo l'incidente di Braga nel 2014, quando in occasione di una conferenza dell'Associazione europea di studi cinesi nella città portoghese l'allora direttore di Hanban modificò il programma della conferenza e fece rimuovere lo sponsor taiwanese, eliminando tutti i contenuti sgraditi al Partito comunista cinese.

Secondo Scarpari in Italia non sono scoppiati degli scandali come altrove in Europa, perché,  anche senza diretti tentativi di censura da parte della componente cinese degli Istituti Confucio,  l'accademia italiana preferisce evitare tematiche sensibili, autocensurandosi. Facendo sua l'immagine di Perry Link in “The Anaconda in the Chandelier”, Scarpari ritiene che la censura cinese si muova come un grosso serpente che si avvolge su un lampadario dell'accademia italiana. Seppur immobile e silenziosa, non è possibile evitare di percepire la minaccia che incombe e modificare i propri comportamenti per evitare eventuali ripercussioni. 

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Il resto della sinologia italiana sembra piuttosto compatto nel difendere gli Istituti Confucio. "Non condivido le ansie di alcuni colleghi" dice Daniele Brigadoi Cologna: "Ho insegnato in tre università in cui esistono degli Istituti Confucio. In nessuna di queste tre realtà ho mai percepito la minima interferenza rispetto al modo in cui insegno e non ho mai avuto nessuna percezione nemmeno di tendenza all’autocensura. E non mi risulta che questo accada in altri contesti". 

Stefania Stafutti, direttrice di parte italiana dell'Istituto Confucio di Torino, descrive il suo lavoro come un gioco di equilibri. In costante confronto dialettico con la componente cinese, i direttori italiani hanno il compito di proporre e monitorare le attività mantenedo saldo il timone.
 

"Certo, è un’istituzione sensibile. Può essere governata in modi diversi, ma questo modo
di governarla dipende da noi. Se tu tieni
la schiena dritta, nessuno ti impone nulla". 

"All'interno degli Istituti Confucio che, come è chiaro a tutti, sono finanziati dai cinesi, non è possibile fare attività di denuncia, però si può evitare la propaganda" continua Stafutti. "Se, mettiamo, mi fosse proposto (e non è mai successo) di fare una mostra sulle bellezze dello Xinjiang non la farei". Alla direttrice torinese è capitato di bocciare delle proposte venute da parte cinese che giudicava dal sapore troppo propagandistico e non adatte al contesto dell'università italiana.

 

"Se voglio fare qualche attività di denuncia la faccio come iniziativa personale, non all’Istituto Confucio" dice Stafutti. Sia lei che la direttrice dell'Istituto Confucio dell'Università degli Studi di Milano Alessandra Lavagnino menzionano momenti in cui non hanno avuto paura di portare avanti iniziative non propriamente in linea con le direttive del Partito comunista cinese, seppur non all'interno degli Istituti Confucio. Lavagnino racconta della sua traduzione e dell’invito all'Università statale di Milano dell'autore Gao Xingjian, il primo Nobel della letteratura cinese, censurato in Cina;  Stafutti ricorda la sua lettera aperta a Xi sulle proteste delle università di Hong Kong,  consegnata alle pagine del Corriere della Sera nel 2019. 

Scarpari però non è convito da queste argomentazioni: "Se uno si sente libero di esprimersi e riesce a farlo all'interno degli Istituti Confucio, buon per lui. Ma anche se fosse così in uno, due, tre casi o quello che è, non cambia nulla rispetto al discorso di fondo. L'anomalia rimane:
 

se gli altri istituti non sono all'interno
dell'università perché quello cinese,
espressione di un governo illiberale e repressivo, deve incardinarsi nelle università?
Non bisogna dimenticarsi dei benefit e soldi
che portano. È con i soldi che si comprano
il silenzio e l'appoggio alle istituzioni italiane".

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I finanziamenti dei Confucio

I soldi, sì, i soldi. In Italia, dove sembra che i fondi per la ricerca e l'insegnamento non bastino mai, la questione dei fondi di Hanban e quindi del Pcc nelle università non è assolutamente secondaria. 

 

Per capire meglio di che somme si tratti, abbiamo fatto delle richieste di accesso civico generalizzato (FOIA) a tutte le università italiane che ospitano Istituti Confucio. Di un totale di 12, abbiamo ricevuto i dati relativi soltanto a 4 Istituti Confucio, quelli del Sant'Anna di Pisa, di Firenze, dell'Università Ca' Foscari di Venezia e quello dell'Università Statale di Milano. Gli Istituti di Torino e Padova sono stati organizzati come personalità giuridiche esterne e quindi non sono tenuti a rispondere alle richieste FOIA.

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Risposte delle università italiane alle nostre richieste FOIA. 

[Dopo la data di redazione di questo testo l'Università di Macerata ha concesso esclusivamente l'accesso al budget iniziale di fondazione dell'Istituto (2011-12)]

L'Università di Napoli l'Orientale ha chiesto consenso alle autorità cinesi prima di rispondere alla nostra richiesta FOIA. A due mesi dalla mancanza di risposta dalla controparte, l'Orientale ci comunica il diniego "per evitare un pregiudizio concreto alla tutela dell'interesse pubblico inerente alle relazioni internazionali con le Autorità Cinesi, in quanto la divulgazione dei dati richiesti è idonea, anche in ragione della clausola di riservatezza che vincola le parti, a ledere l'interesse pubblico al prosieguo delle relazioni con le Autorità cinesi".

In parole più semplici, l'Orientale si rifiuta di condividere le informazioni finanziarie riguardanti l'Istituto Confucio che ospita, per tutelare le relazioni che l'ateneo intrattiene con le controparti cinesi. Questa risposta mette in luce l'interconnesione finanziaria dell'università con le autorità cinesi. 

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Considerando numeri come quelli indicati nel grafico per ogni Istituto in Italia, in Europa e nel mondo possiamo capire l'ampiezza dell’investimento cinese nei Confucio. Ai fondi per l'ordinaria amministrazione vanno poi aggiunti dei finanziamenti straordinari, soprattutto per le nuove sedi. Come riportato da Veronica Strina in Censimento degli Istituti Confucio d'Italia, nel 2015 e negli anni seguenti Hanban e Sapienza hanno stipulato una convenzione in cui venivano dati in usufrutto gli spazi di Palazzo Baleari nel centro storico di Roma in cambio del finanziamento dei lavori di ristrutturazione dal valore 1 milione di euro. A Macerata, per la ristrutturazione di Villa Lauri, sede dell'Istituto Confucio e del China Center, Hanban ha sborsato almeno 2 milioni di euro, dando vita a un cosiddetto "Istituto Confucio modello" comprendente biblioteche, laboratori e sale riunioni.

 

Nel verbale di una riunione riguardante il bilancio del Dipartimento di Studi sull'Asia e l'Africa Mediterranea del 2019 dell'Università Ca' Foscari troviamo che oltre ai 146.313 euro richiesti ad Hanban, l'Istituto può avvalersi di 177.179 euro determinati dai costi di personale e degli spazi e dai proventi presunti dalle attività del Confucio (come esami e corsi di lingua). 

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Inaugurazione di Villa Lauri a Macerata, 21 luglio 2021, foto via Picchio News.

Quale futuro per gli Istituti Confucio?

"Quando qualcuno pensa che ci sia chissà quale attività di spionaggio sottobanco, mi irrito. Gli ultimi due anni della pandemia sono stati particolari, ma normalmente mandiamo tantissimi studenti in Cina che imparano la lingua, si rendono conto di persona di cosa sia questo paese e non tornano certo con il lavaggio del cervello" commenta Stefania Stafutti. 

Con la sospensione dei viaggi in Cina e la proliferazione di scandali e chiusure gli Usa e in Europa, anche da parte cinese c'è chi vorrebbe fare un passo indietro con gli Istituti Confucio, rendendoli un'entità meramente finalizzata all'insegnamento della lingua e  tenendosi alla larga dalle attività di cultura potenzialmente più problematiche. Il professore dell'Università dell'Insubria Brigadoi Cologna spiega che si tratta di una riflessione in atto ormai da qualche anno: "L'idea mi pare sia quella di renderli più focalizzati sul piano della certificazione linguistica. Anche alcuni intellettuali cinesi avevano dei dubbi rispetto ai Confucio, dicevano che suonavano un po' come propaganda fatta da maestri delle elementari. Ora penso che ci sia l'idea di ritornare alla sobrietà". In ogni caso, secondo Brigadoi Cologna, quando si parla di ingerenza cinese nell'università italiana, gli Istituti Confucio non dovrebbero essere la maggior preoccupazione. 

 

"L'accademia è uno dei canali principali per spingere narrative a favore del Partito comunista cinese e sopprimerne altre" dice Mareike Ohlberg, l'autrice de La mano invisibile e ricercatrice a Berlino. "Ciò avviene in parte attraverso accordi universitari e investimenti, ma anche controllando l'accesso alla Cina. Se la tua ricerca dipende dall'accesso alla Cina, il Partito lo sa e può usarlo per influenzarti".  

Secondo quanto riportato dall'Economist, a Oxford quando scrivono di temi sensibili legati alla Cina gli studenti possono scegliere l'anonimato. In Italia per ora questa possibilità non è prevista e la tendenza all'autocensura si diffonde anche tra gli studenti. È quello che aveva scritto nel 2019 sulle pagine del Corriere della Sera, Fiorenzo Lafirenza,  professore ordinario di Lingua e Letteratura cinese dell'Università di Venezia Ca' Foscari: i suoi studenti preferivano evitare tesi su argomenti scomodi per non rischiare di vedersi negare l'ingresso in Cina. 

Secondo Brigadoi Cologna non si tratta di un problema nuovo però: "Quando si lavora con un paese come la Cina, la problematicità del soggetto è parte integrante di quello che si sta facendo. È come studiare l'Urss quando c'era l'Urss. È ovvio che devi stare attento, perché non si tratta di un paese democratico dove puoi dire quello che vuoi. Sono questioni in cui ciascuno trova la sua misura nel corso della sua carriera accademica". 

Anche Stafutti conclude con una considerazione simile. "Avere rapporti con i cinesi ti espone a un mondo problematico perché la nostra concezione dell'organizzazione della vita pubblica e della libertà individuale è sostanzialmente diversa dallo loro. Possiamo scegliere di tagliare i ponti, ma il nostro compito come accademici è quello di crearli pur preservando la nostra indipendenza". 

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Un professore italiano e il giuramento al Pcc - Ivan Cardillo
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Ivan Cardillo, professore ordinario in Cina racconta della sua esperienza con i corsi di formazione  del Partito Comunista cinese  e il giuramento di fedeltà al Partito.

Legami troppo stretti 

Se c'è una cosa su cui Mareike Ohlberg e i sinologi italiani che lavorano in Istituti Confucio sono d'accordo è che questi sono solo l'elemento più visibile, e  tutto sommato meno preoccupante, di un problema più vasto: "Spesso il dibattito si incentra solo sui Confucio ma il problema in realtà è molto più esteso" dice Ohlberg. Maggior preoccupazione viene secondo l'autrice de La mano invisibile dalle università in ambito scientifico-tecnologico (STEM secondo l'acronimo inglese), quello per cui il Partito comunista cinese ha maggiore interesse. 

 

"In Italia abbiamo un denso network di collaborazioni con aziende e università cinesi che portano a pubblicazioni congiunte, scambi di talenti, partenariati di ricerca, sviluppo in ambito accademico e commerciale e investimenti in start-up in svariati settori ad alta intensità tecnologica. Ma queste attività non sono debitamente monitorate" spiega Rebecca Arcesati, ricercatrice del think tank tedesco Merics. 

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1

Sicurezza
nazionale

2

Utilizzo non etico

3

Sicurezza economica

Diverse tecnologie avanzate (intelligenza artificiale, biotecnologie, tecnologie quantistiche eccetera) trovano applicazione sia in ambito civile
che in quello militare, e per questo
si definiscono 'a duplice uso'. Il loro trasferimento a paesi terzi
è disciplinato da un regolamento europeo, aggiornato a giugno 2021. In Cina però il confine tra ricerca civile e militare è sempre più labile
e spesso è difficile distinguere quali attori operano anche nel settore dell'industria militare e della difesa. Se non opportunamente monitorate, le collaborazioni in questi settori sensibili rischiano inavvertitamente di contribuire alle crescenti capacità militari cinesi. 

Alcune tecnologie possono essere usate per scopi di repressione
e sorveglianza pubblica da parte di paesi autoritari. Con la Cina questo rischio va particolarmente soppesato, visto l'uso massiccio che Pechino
fa degli strumenti digitali nei suoi programmi di sorveglianza, come
ad esempio nei casi ben documentati di violazioni dei diritti umani delle minoranze nello Xinjiang. Se non opportunamente monitorate,
le collaborazioni con attori cinesi coinvolti nello sviluppo di tecnologie per la sorveglianza, rischiano inavvertitamente di contribuire
alle violazioni di diritti umani che Pechino porta avanti. 

Le collaborazioni in settori ad alta intensità tecnologica (settore navale e delle tecnologie marine, delle telecomunicazioni, della robotica, dei veicoli a propulsione alternativa, eccetera) in cui la Cina punta
alla leadership globale schiacciando
i concorrenti delle economie avanzate, pongono il problema
di come proteggere il know-how
a cui la Cina cerca di avere accesso per potenziare le sue capacità
di innovazione. 

"A differenza degli investimenti diretti esteri e delle esportazioni di tecnologie sensibili che vengono controllati rispettivamente dal Golden power e dai controlli all'export, per le collaborazioni di ricerca non c'è un monitoraggio altrettanto attento, in particolare in ambito universitario" continua Arcesati. "La mia impressione è che il governo non abbia pienamente accesso alle informazioni riguardo i legami tra il nostro ecosistema dell'innovazione e quello cinese. Ma non è un problema limitato all'Italia" conclude la ricercatrice. 

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Giuliano Noci parla dei rapporti politici tra Italia e Cina e della loro influenza sull'internazionalizzazione del Politecnico di Milano. 

Attualmente non c'è un obbligo per le autorità di monitorare attivamente i partenariati tra le università italiane e attori vicini a regimi autoritari, come quello cinese. Sono gli atenei che hanno il compito di dare notizia del contenuto delle collaborazioni  con attori esteri soggetti al controllo delle esportazioni, come nel caso delle tecnologie a duplice uso, spiega Arcesati: "Se le università non hanno questa iniziativa, molte collaborazioni possono rimanere sostanzialmente nel buio. Questa mancanza di trasparenza è il problema fondamentale."

Anche i casi regolamentati presentano comunque delle lacune: "Molta ricerca di base non è coperta dai controlli delle esportazioni. Eppure anche in questo caso potrebbero verificarsi dei trasferimenti di competenze contrari all'interesse nazionale" aggiunge la ricercatrice di Merics. 

"Certo che c'è uno screening. Tutto quello che riguarda la Cina passa da me. Tutto quello che vedo io informo la presidenza del Consiglio" afferma Giuliano Noci, prorettore alle relazioni con la Cina del Politecnico di Milano  e direttore del polo Cina, alle nostre domande su quali siano le procedure di monitoraggio e controllo sugli accordi con paesi autoritari. "Qui state parlando con la più importante università tecnica del paese e con una persona che ha lavorato per il ministero dell'Interno. Da questo punto di vista vorrei fugarvi qualsiasi dubbio: il Politecnico di Milano è pienamente raccordato con gli apparati di sicurezza italiani, vorrei che non mi faceste più domande su questo." 

controllo delle 

I controlli all'export

Il controllo delle esportazioni riguarda i trasferimenti di certi prodotti considerati strategici, inclusi quei materiali di armamento e prodotti 'a duplice uso', che hanno cioè possibili applicazioni civili e militari.

esportazioni

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Giuliano Noci spiega il tema della sicurezza nazionale nei rapporti del Politecnico di Milano con la Cina.

Le problematicità riguardano università militari, che collaborano con l'Esercito popolare di liberazione, ma anche università civili, cioè non direttamente affilite all'Esercito popolare di liberazione, dato il loro ruolo nella creazione di tecnologie impiegate in operazioni di sorveglianza, militari o violazioni di diritti umani.

Nel China Defense Universities Tracker, il ricercatore australiano Alex Joske classifica le università cinesi in base al potenziale rischio delle collaborazioni con loro per la sicurezza militare e economica. In particolare, Joske menziona i 'Seven Sons of National Defence'  (国防七子, i sette figli della difesa nazionale), un gruppo di università subordinate al ministero dell'Industria e della Tecnologia dell’Informazione che supervisiona l'industria della difesa cinese. Oltre a queste 7 università, nel database il ricercatore australiano ha inserito altre 85 università e centri di ricerca cinesi "a rischio altissimo", tra cui istituzioni dell'Esercito popolare di liberazione, istituzioni di sicurezza e intelligence, università civili e i principali conglomerati dell'industria della difesa cinese.  

"Ovviamente bisogna ricordare che non tutte le collaborazioni con università del genere costituiscono necessariamente un rischio. È importante andare a vedere di cosa si tratta nello specifico e su quale tecnologie si focalizzano questi partenariati" ricorda Arcesati. Secondo la ricercatrice di Merics "documentare l'esistenza di queste collaborazioni è un primo passo necessario per promuovere maggiore trasparenza, così come analizzare rischi e opportunità che accompagnano la collaborazione scientifica e tecnologica con un paese complesso come la Cina". 

Nel giugno 2022 basandosi su fonti accessibili pubblicamente e sul lavoro di Joske, i membri del Central European Institute of Asian Studies (Ceias), un think-tank indipendente basato in Slovacchia, Repubblica Ceca e Austria hanno mappato gli accordi accademici a rischio di 11 paesi europei, in cui però non è compresa l'Italia. 

Consultando i dati della pagina degli accordi internazionali, in collaborazione con ministero dell'Istruzione dell'Università e della Ricerca, ministero degli Affari Esteri e CRUI e Cineca, contiamo 37 accordi accademici in diverse università italiane con i 7 Sons of National Defence. A cui si aggiungono 37 accordi con università classificate da Joske ad altissimo rischio, per un totale di 74 accordi con università potenzialmente a rischio. Non risultano però accordi con università militari cinesi. 


Ma non sono solo le università a essere possibili fonti di rischio. Anche aziende private in settori strategici quali Hauwei e ZTE sono capillarmente installate nelle università italiane. In Italia, come afferma Erica Banti, head of corporate communications di Huawei Italia, a settembre 2021 Huawei aveva 20 collaborazioni attive con universitàitaliane e 5 Joint Lab. Le abbiamo raccolte, insieme alle collaborazioni con ZTE, altro colosso delle telecomunicazioni cinese, in un file Excel in continuo aggiornamento. Conosci altre partnership d Huawei o ZTE con Università italiane? Contribuisci ad aggiornare il file!

Alcuni di questi però sono altamente problematici. Arcesati menziona ad esempio quella con il Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna sulla 'smart' e 'safe city': "Huawei ha legami noti e ben documentati con il ministero della Sicurezza Pubblica cinese – l'autorità che gestisce la sicurezza interna e del Partito comunista cinese" spiega Arcesati. "Le tecnologie di Huawei sono utilizzate nei programmi di polizia e sorveglianza legati a massicce violazioni dei diritti umani nello Xinjiang. L'azienda ha anche sviluppato sistemi di riconoscimento facciale in grado di identificare e monitorare con maggiore accuratezza specifiche minoranze etniche"  precisa. 


Anche al Politecnico di Milano, Huawei ha istituito un Joint Lab sul tema della comunicazione wireless e sponsorizza borse di studio. "Ringraziamo Huawei che è un partner da molti anni e con cui lavoriamo bene. Sviluppiamo tecnologia che fa in parte riferimento al sistema 5G ma riteniamo che sia assolutamente coerente con la nostra idea di una scienza che costruisce ponti." Commenta Noci : "Se ci fossero anche altre aziende tipo Nokia ad investire da noi, ovviamente accetteremmo, ma come mai non vengono?"   
 

"Molti ricercatori delle discipline scientifico-tecnologiche mancano di consapevolezza" afferma Mareike Ohlberg. "Guardano con entusiasmo alle collaborazioni con la Cina e si dicono, ma cosa mi importa se poi ne beneficia l'Esercito di liberazione cinese? Sto esagerando, ma per alcuni è veramente così." Altri invece, come Noci, sostengono che in qualche modo la collaborazione in ambito tecnico-scientifico con la Cina possa contribuire a un processo di democratizzazione del paese. 

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 Noci sottolinea l’importanza di avere rapporti con la Cina, anche in relazione alle violazioni dei diritti umani presenti nel paese.

"Nel nostro paese il tema delle collaborazioni di ricerca con attori cinesi non riceve ancora sufficiente attenzione, ma in altre parti d'Europa il dibattito sta prendendo piede" commenta Rebecca Arcesati, riferendosi anche ad una recente inchiesta di un consorzio di media europei tra cui IRPI Media da parte italiana. 


La ricercatrice di Merics ritiene che si potrebbe estendere lo strumento del Golden power  anche ai controlli su partenariati e collaborazioni universitarie nella ricerca e nell’innovazione. Inoltre, la Commissione europea e alcuni paesi europei come Germania, Finlandia, Regno Unito e Paesi Bassi hanno pubblicato delle linee guida per quegli enti di ricerca, incluse le università, che collaborano con attori a rischio. Un'altra soluzione potrebbe essere quella di richiedere che le università notifichino attivamente eventuali finanziamenti alla ricerca e i partenariati con enti collegati a paesi con un profilo di rischio elevato, come la Cina. 

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Le Istituzioni

softhard: sharp

Il politologo Joseph Nye definisce soft power il potere di persuasione che uno stato esercita grazie al fascino della sua cultura, dei suoi ideali e delle sue istituzioni. Se le politiche di un paese vengono considerate legittime e virtuose, gli altri stati decidono di volerle emulare. Tutt'altra cosa è l'hard power, che non vuole persuadere ma piuttosto costringere. Attraverso interventi militari o sanzioni economiche ad esempio, uno stato cerca di piegare la controparte al proprio volere. 

Negli ultimi anni è tornata alla ribalta l'idea di un terzo potere che rimane spesso segreto ed è associato ai paesi autoritari, come la Cina: i politologi Christopher Walker e Jessica Ludwig lo definiscono sharp power. Per asservirla ai propri interessi, lo sharp power intende manipolare la controparte, erodendone i processi democratici dall’interno. È anche conosciuto anche con il nome di guerra politica (political warfare) o più comunemente, operazioni di influenza. 

Il Caso

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Ad aprile 2022 è iniziato il processo che vede protagonista, tra gli altri, Antonio Morabito, già ambasciatore italiano a Monaco poi approdato alla direzione generale per la promozione del sistema paese del ministero degli Esteri. L'indagine della Guardia di Finanza ha rivelato una serie di pagamenti mensili, viaggi e altri benefit che l'ambasciatore Morabito avrebbe ricevuto tra il 2016 e il 2017 per la creazione di canali preferenziali per investimenti esteri, anche cinesi, in Italia. 

Nell'avviso di garanzia si legge come tra le altre cose, Morabito forniva informazioni riservate su aziende "in procinto di essere cedute o comunque interessate alla partecipazione di terzi al capitale sociale"; prometteva di trovare opportunità riguardo "infrastrutture e opere importanti, come centrali elettriche, gasdotti, autostrade" e anche aziende partecipate dallo Stato; forniva notizie a intermediari interessati a stringere un accordo commerciale in ambito di prodotti informatici con Huawei, il gigante delle telecomunicazioni cinesi con un legame controverso con il Partito comunista.

Al centro della complessa vicenda anche due individui di origine cinese, l'avvocato di Roma Claudio Xu Chenghui e Hu Yunlai, ex agente di commercio e ora imprenditore attivo nel settore navale che vive a cavallo fra Genova e Milano. Nella storia di Morabito, sia l'avvocato Xu che l'imprenditore Hu fungono da intermediari tra l'ex ambasciatore e coloro che desideravano informazioni riservate a cui il funzionario aveva accesso. Hu Yunlai si occupava personalmente di disporre alcuni dei bonifici in cambio delle informazioni da un conto di Shanghai, e Claudio Xu Chenghui "dava o prometteva [...] una cifra fissa" all'Ambasciatore per l'accordo con Huawei, si legge nelle carte della Guardia di Finanza.

Sulle esatte dinamiche della vicenda farà luce la seconda sezione penale del Tribunale di Roma. 

All'epoca dei fatti Hu Yunlai era a capo di Obali Europe Srl, un'azienda attiva dal 2017 con sede in provincia di Milano e sussidiaria di Foshun Obali, colosso cinese attivo nel settore navale e che produce, tra le altre cose, dispositivi elettronici per navi da guerra. Sul sito della casa madre sotto la sezione 'special products' ci sono, senza alcuna didascalia esplicativa, due immagini della Liaoning, una delle portaerei della Marina militare cinese. Almeno fino al novembre 2015, un'altra sussidiaria del gruppo Fushun Obali, specializzata in allestimenti e costruzioni navali, possedeva la certificazione necessaria a produrre componentistica ad uso militare.

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Sul sito della casa madre cinese Fushun Obali, sotto la sezione "special product" appare l'immagine della portaerei Liaoning senza alcuna didascalia esplicativa.

Certificazione necessaria a produrre componentistica
ad uso militare di una sussidiaria di Fushun Obali.

Nel bilancio del 2018 di Obali Europe, anno in cui Hu Yunlai era ancora presidente, si fa riferimento a un accordo commerciale che l'azienda avrebbe poi stipulato nella primavera 2019 con Fincantieri, l'azienda italiana leader nel mondo della cantieristica navale. Sembrerebbe quindi che Hu abbia gestito la trattativa personalmente per poi – a febbraio 2019, solo un mese circa prima del successo dell'operazione - lasciare cariche e quote societarie direttamente in mano a esponenti della casa madre cinese. Interrogati a proposito di eventuali rapporti con Hu Yunlai, a Fincantieri ci rispondono di non poter commentare gli accordi commerciali e di non essere a conoscenza del coinvolgimento di Hu Yunlai nel caso Morabito. 

I rapporti tra Hu Yunlai e Fincantieri sembrano essere di lunga data. "Il primo ordine della divisione meccanica di Fincantieri in Cina l'ho preso io" ci dice Hu Yunlai nella polverosa sala riunioni della sua azienda a Lainate, nei sobborghi di Milano. Era il 2015 e si trattava di un ordine per una nave passeggeri per l'armatore norvegese Viking. Hu ha introdotto Fincantieri alla controparte cinese in qualità loro agente e "alla fine abbiamo preso l'ordine" ci racconta. 

Parla con voce ferma e sicura mentre ci spiega da quali parti è composta una nave, ma quando cerchiamo di capire di più sul suo rapporto con Fincantieri si fa cupo, abbassa lo sguardo e inizia a tentennare. "Io sono laureato all'Università di Genova e molti dei tecnici di Fincantieri provengono da lì, quindi ho conosciuto Fincantieri tramite le mie conoscenze universitarie".

Vedendolo restio proviamo a chiedergli di Obali Europe, la ditta di cui era a capo: "non ho più alcun rapporto con loro, ho sentito che è fallita" dice. Quando chiediamo ulteriori informazioni sull'azienda, si innervosisce, ci accusa di avergli teso un'imboscata e lascia la stanza.

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Hu Yunlai, imprenditore di origini cinesi in Italia e già presidente di Obali Europe.
Hu reagisce alla domanda riguardo i suoi rapporti con Obali Europe e la casa madre cinese, Fushun Obali.

Proviamo a seguirlo fuori dalla sala riunioni, ma ci accorgiamo che l'imprenditore è scappato dalla sede aziendale dove siamo rimaste soltanto noi tre e la sua segretaria, che ci dice di non contattarlo mai più. Lo richiamiamo al cellulare ma è ancora scosso e non vuole assolutamente riprendere l'argomento. 

Qualche settimana più tardi facciamo un ultimo tentativo e lo ricontattiamo via e-mail per sottoporgli qualche domanda sul suo lavoro a Obali Europe, sulla casa madre cinese e sull'accordo con Fincantieri. Ci risponde di essere stato amministratore delegato di Obali Europe, sussidiaria di Fushun Obali, fino alla fine del 2017, anche se stando ai verbali d'assemblea dei soci le dimissioni di Hu Yunlai in qualità di presidente del consiglio di amministrazione risalgono a inizio 2019. 

Non è l'unica imprecisione nel racconto di Hu: Obali Europe risulta attiva; né in fallimento, né in liquidazione. L'ultimo bilancio disponibile è del 2020 e si chiude con una perdita di circa 46,000 euro che verrà coperta con un finanziamento da Fushun Obali Ltd, si legge nel verbale d'assemblea. Sull’accordo con Fincantieri, invece, Hu Yunlai dichiara di non sapere nulla.

Altrettanto interessante è la storia dell'avvocato Xu Claudio Chenghui. Nella vicenda dell'Ambasciatore Morabito, la figura dell'avvocato romano emerge come secondo intermediario degli investitori cinesi.  Spulciando i documenti dell'indagine della Guardia di Finanza, ci sembra che i legami tra Claudio Xu e la politica cinese siano piuttosto stretti: notiamo un riferimento a una serie di impegni che l'avvocato romano aveva "prima del congresso del [P]artito". 

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Estratto proveniente dall'informativa della Guardia di Finanza.
L'oggetto della conversazione intercettata è l'avvocato Claudio Xu Chenghui.

Questo diaologo è estrapolato da una conversazione avvenuta nel settembre 2017 e ci appare verosimile che il "congresso del [P]artito" a cui si fa riferimento sia il XIX Congresso nazionale del Partito comunista cinese, svoltosi a Pechino nell’ottobre 2017. Il Congresso nazionale è l'assemblea che ogni cinque anni riunisce un numero accuratamente selezionato di membri del Partito per prendere le decisioni più importanti, dall’elezione dei funzionari senior agli emendamenti della Costituzione del Pcc. A quello del 2017, Xi Jinping ha rimosso il limite costituzionale dei due mandati, ponendo le basi per governare a vita.

 

Nei documenti dell’indagine, l'avvocato Xu viene indicato come un "esponente degli organi locali dell'Hubei" che facilita un incontro tra l'ambasciatore Morabito e l'allora segretario del Partito per la provincia dello Hubei Li Hongzhong, avvenuto al Forum on Global Production Capacity and Business Cooperation tenutosi a Wuhan nel giugno 2016.

I legami di Xu con la politica italiana e cinese non sembrano circoscritti al caso Morabito. L'avvocato infatti è anche parte di una delegazione dello Hubei che nel novembre 2016 firma un accordo con l'Istituto Neuromed di Pozzilli, in provincia di Isernia, di proprietà dell’europarlamentare di Forza Italia Aldo Patriciello. Il Memorandum d'intesa firmato tra il Centro per lo scambio scientifico e tecnologico internazionale dello Hubei e Neuromed prevede "scambi di ricercatori, redazione di progetti congiunti e altre iniziative di sviluppo scientifico e tecnologico".

 

Nella stessa occasione si registra una seconda visita tra la delegazione dello Hubei e i rappresentati della regione Molise. L'incontro si conclude con la firma di un Protocollo d'amicizia, sulla base di interessi nella cooperazione "anche nel campo della ricerca scientifica, delle infrastrutture, del turismo e dell’ambiente". La conoscenza tra i funzionari della regione italiana e la controparte cinese sembra risalire allo stesso Forum di Wuhan dove l'avvocato Xu ha presentato il segretario del Partito Xi all'ambasciatore Morabito nel giugno 2016.

Contattato per un commento sulla vicenda e sulle sue affiliazioni politiche, l'avvocato Xu non ha voluto rilasciare alcuna intervista e al momento della redazione dell’inchiesta le nostre domande via e-mail sono rimaste senza risposta. Né l'Istituto Neuromed né la regione Molise hanno risposto alle nostre richieste di commento per iscritto. 

Nel caso dell'avvocato Xu Chenghui si può parlare di rapporti con attori del Fronte unito. A guidare la delegazione cinese in Molise in entrambe le occasioni è Chen Tianhui, vicepresidente esecutivo del comitato provinciale dello Hubei della Conferenza politica consultiva  del popolo cinese (Cppcc nel suo acronimo inglese). Poco conosciuta se non dagli specialisti, la Conferenza politica consultiva  del popolo cinese  è una delle organizzazioni di punta del Fronte unito: il suo comitato direttivo è presieduto da un membro del comitato permanente dell'ufficio direttivo del Partito comunista cinese. Della Cppccne abbiamo già parlato in riferimento all'Associazione Progetto Italia-Cina di Wang Xin [se vuoi saperne di più segui questo link]. 

Se l'ambasciatore Morabito si è legato a Hu Yunlai e Xu Chenghui, come anche a moltissime altre figure presenti nell'inchiesta della Guardia di Finanza, "ricevendo in cambio danaro e/o utilità di vario genere, o accettandone la promessa",  la relazione con figure influenti della politica locale segue di solito delle modalità più lineari. Vi raccontiamo allora come esempio una storia più ordinaria, quella di Mario Razzanelli, imprenditore fiorentino, vicecapogruppo di Forza Italia al consiglio comunale e cittadino onorario della città cinese Ningbo, centro portuale a sud di Shanghai. 

"Mi sembrava di essere il presidente della Repubblica, c'erano televisioni, giornali…” racconta Razzanelli, ricordando la sua prima visita a Ningbo nell'autunno del 2003. Come si era trovato lì? L'imprenditore fiorentino ci accoglie nel suo lussuoso appartamento di Firenze, tra trofei di vela e stampe giapponesi, per raccontarci del  "colpo di fulmine", come lui stesso lo descrive, con la Cina, iniziato per caso e che gli ha cambiato la vita.​ 

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Mario Razzanelli, vice capogruppo di Forza Italia a Firenze. Razzanelli ci racconta dei suoi legami
con la Cina, iniziati nei primi anni 2000 e sfociati nell'inaugurazione di una copia del David a Ningbo.

Quando gli chiediamo i motivi di questo rapporto elettivo sviluppatosi con gli anni, Razzanelli si limita a parlare di un'intesa spontanea. Dichiara di non aver mai ricevuto pressioni o richieste, menziona i grandi affari nel mercato cinesi per gli imprenditori fiorentini e le sue decine di viaggi a Ningbo (quasi 70 in poco meno di vent'anni), ma non pare molto preparato quando lo interroghiamo sugli aspetti sociali e politici del paese. "Molti non lo sanno, ma in Cina ci sono delle  elezioni e  il Partito comunista raccoglie ancora oggi la maggioranza dei consensi probabilmente perché ha favorito uno sviluppo economico incredibile. Pensate che nel 2003 a Ningbo c'era un solo albergo a cinque  stelle oggi sono più di trenta" commenta. Riguardo alle violazioni dei diritti umani, di Taiwan e Hong Kong, Razzanelli ammette di non essere molto informato. 

"Di solito visito Nigbo nel mese di ottobre, in occasione del Festival della Moda e della Cultura. Loro organizzano una grandissima cena in cui invitano tutti gli imprenditori e politici più importanti della città insieme a  quelli stranieri. Per l'Italia la Cina è un mercato pazzesco per moltissimi settori" dice.

Nel 2012 Razzanelli aveva spinto per l'apertura di un'università cinese a Firenze. Oggi il piano sembra definitivamente morto, ma per Razzanelli "sarebbe una bella idea". Negli ultimi anni la sua principale battaglia politica è contro la nuova tramvia fiorentina, a cui lui propone invece come alternativa "il tram cinese senza rotaie e senza fili" che ci mostra sul suo cellulare. Nonostante questi tentativi non siano andati a buon fine, Razzanelli rimane convinto di aver trovato la sua America in Cina; non esita a dare una mano agli amici cinesi, come quando nel 2018 accompagnò le telecamere di Ningbo TV  a visitare Firenze e la redazione de La Nazione, che a proposito di tale visita pubblicò un articolo dal titolo "Cina, 40 anni di libertà".

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Un ultimo sguardo

Istituzioni, associazioni della società civile, mondo accademico: con un'inchiesta durata mesi abbiamo cercato di mappare i diversi ambiti in cui il Partito comunista cinese, cerca di estendere la sua influenza in Italia. Seppur gli scopi siano a volte sotterranei, i modus operandi ci sembrano evidenti: alcuni sono esempi di sharp power, che si camuffano e approfittano dell'apertura dei sistemi democratici per manipolare gli interlocutori spesso inconsapevoli. Rimaniamo con una domanda: quanto sono efficaci questi tentativi? 

 

Un giornalista che preferisce rimanere anonimo
ci ha raccontato di quando qualche anno fa
è stato contattato dall'ambasciata cinese a Roma. L'allora responsabile dell'ufficio stampa domandava una "lista di nomi dei giornalisti amici della Cina", promettendo in cambio un'intervista esclusiva
con l'ambasciatore cinese in Italia.

 

Il giornalista in questione ha declinato l'offerta, aggiungendo che al massimo poteva fornire "una lista di nomi di giornalisti", senza listarli quali "amici della Cina" o meno. Episodi come questo probabilmente si verificano più spesso di quanto viene riportato. Oltre a essere indicativi di una precisa volontà di interferire nel dibattito pubblico nazionale, mostrano la scarsa comprensione che le istituzioni cinesi spesso hanno dei meccanismi democratici - carta che a volte gioca a loro sfavore. 

 

Anche la ricercatrice Mareike Olhberg ricorda che "non bisogna credere che il Partito sia un genio assoluto" e che non tutti i suoi tentativi di influenza sono architettati nei minimi dettagli e vanno a buon fine. Il messaggio della propaganda cinese cresce dove  trova il terreno fertile per germogliare. In Italia, più che l'efferatezza dei tentativi cinesi di ingerenza, pare sia  l'impreparazione a renderci “una preda facile”, come titola il report Synopsis.

 

"Pensateci un attimo, è una cosa che fa impressione. Accetteremmo di avere in tutta l'Italia forse 50 persone che sono in grado di leggere correntemente
e comprendere appieno quello che pubblica
il
New York Times?

 

Però sembra normale quando si parla di Cina. È insensato e suicida. Ed è una situazione che non ha grandi paralleli in giro per l'Europa, in Germania per esempio la situazione è diversa" commenta il docente Brigadoi Cologna. 

I sinologi italiani, sia quelli che lavorano negli Istituti Confucio sia quelli che invece li vorrebbero fuori dalle Università, esprimono fortissima preoccupazione per la mancanza di conoscenze sulla Cina in Italia. "È possibile che i giornalisti inviati in Cina spesso non sappiano neanche la lingua? Delle volte mi accorgo che vengono dette certe inesattezze…" lamenta Stefania Stafutti dell'Università di Torino.  "Purtroppo ad oggi sono davvero pochissimi i giornalisti italiani che utilizzano direttamente fonti originali in cinese, preferendo riprendere quanto già scritto da altri, magari in inglese” aggiunge Alessandra Lavagnino dell'Università degli studi di Milano. 

"In Italia, rispetto ad altri paesi europei, manca una grande tradizione di esteri" ci racconta un giornalista esperto di Cina. "Spesso si legge la Cina attraverso un filtro occidentale, oppure si cade nell'eccezzionalismo cinese che giustifica (quasi) tutto". 

La mancanza di conoscenze approfondite che dilaga nei media contagia anche la politica, secondo il professor Scarpari: "Chi ci governa ha delle posizioni improvvisate sulla Cina. Infatti dal siglare un Memorandum che è stato spacciato come operazione di tipo commerciale - cosa che non è, è un’operazione politica -  adesso si è passati al Golden power e poi chissà…". "Male informato, polarizzato, legato a dinamiche interne" così Filippo Fasulo dell'Ispi definisce il dibattito politico italiano sulla Cina. Eccetto il Movimento 5 stelle,  tra i più filocinesi, e Fratelli d'Italia, il partito con posizioni più dure verso la Cina, negli altri partiti si trovano le posizioni più variegate a seconda dell'occasione. 

Cosa fare quindi per combattere questa cronica impreparazione? Conclude Stafutti: "L’unica difesa è sempre la maggiore conoscenza che consente entro certi limiti di vigilare un po’ sugli stereotipi, di mantenere una posizione critica. In questo i media giocano un ruolo importante. Di solito la narrazione sulla Cina è molto sensazionalistica. In quanto giornalista è il tuo compito porre problemi e anche provocare, ma devi farlo con onestà intellettuale.”

"È facile per le organizzazioni ufficiali cinesi dominare il dibattito e riprodurre le loro narrative senza che queste vengano messe in discussione" commenta la ricercatrice Mareike Ohlberg. Questo accade "perché non c'è molta conoscenza approfondita della Cina né di come il Partito-Stato funzioni"; "non basta aprire l’ennesimo istituto di lingua e cultura, bisogna risolvere la mancanza di conoscenza politica", conclude la ricercatrice. 

"Abbiamo codici di condotta per giornalisti, dottori e altre categorie ma non ne abbiamo uno per gestire i regimi autoritari" afferma Ohlberg. Secondo la ricercatrice servirebbe una guida per capire come interfacciarsi con istituzioni autoritarie, quali fondi accettare e come gestire i tentativi di intimidazione o censura. Ohlberg sottolinea la necessità di maggiore trasparenza nei rapporti con la Cina. "Un esempio virtuoso è quello della Middle Eastern Studies Association statunitense che per ogni episodio che minaccia la libertà accademica, come un intervento diretto di un governo della regione, si rivolge all'ambasciata e rende pubblica la vicenda" riporta la ricercatrice. 

Nel dibattito sulla Cina, su che tipo di relazione vogliamo con Pechino e su come comportarci nei confronti di un paese sempre più aggressivo, l'Italia è arrivata tardi. Il dibattito sta iniziando a prendere piede e c'è molto ancora da fare. Maggiore trasparenza nei rapporti con la Cina e linee di comportamento chiare alle quali rifarsi potrebbero essere un primo passo per far sì che gli attori che si interfacciano con Pechino continuino a creare ponti ma siano consapevoli e pronti a gestirne l'influenza.

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